Il Fast fashion potrebbe essere giunto al suo declino. Possibile che la pandemia covid abbia dato una coltellata alla schiena ad uno dei sistemi imprenditoriali più funzionali degli ultimi decenni? Una cosa è certa le catene della grande distribuzione organizzata del mondo della moda sono in crisi per la prima volta dalla loro nascita. In questo articolo scopriamo come il lockdown abbia travolto il settore e che cosa sta accadendo a due anni di distanza.
Il crollo del Fast fashion
Ormai se ne sente parlare da diverso tempo: la pandemia covid sembra aver dato il colpo di grazia al mondo del Fast fashion.
Negozi chiusi, e-commerce che perdono la loro efficacia, utenti che non desiderano essere disturbati da news letter continui con allora interno sconti eccezionali.
I danni sono miliardari, senza contare i milioni di posti di lavoro a rischio. Con il lockdown si è verificato un vero e proprio tsunami che ha travolto il settore della moda. Ad affermarlo è il direttore del Polimoda (Firenze), il quale durante un’intervista ha dichiarato che durante il periodo a cavallo tra il 2019 e il 2020 c’è stata una sovrapproduzione con un’alta tensione nei confronti della vendita che ha portato un’alta ridondanza nei confronti dello stile.
Il virus a messo a nudo in realtà un settore che già non stava bene da tempo. Vediamo perché nei prossimi paragrafi.
Non è tutta colpa del covid
Non è tutta colpa della pandemia se i conti delle grandi aziende multinazionali della moda sono in rosso. Non è tutta colpa del covid se milioni di punti vendita delle catene Fast fashion stanno chiudendo.
Dalla fine degli anni ’90 sino ad oggi, questo settore della moda a conosciuto un periodo di grande prosperità. Sono riusciti a modellare a loro immagine e somiglianza una tipologia di consumatore poco informato sulle pratiche produttive ed interessato solo ed esclusivamente ad accumulare pur di essere costantemente alla moda.
Negli ultimi 10 anni però c’è stata una controtendenza: molti influencer e blogger hanno iniziato a parlare di Vintage, di qualità dei materiali o ancora di sfruttamento del lavoro minorile nel settore tessile. Questo apportato ad una maggiore consapevolezza di quello che c’è dietro la macchina produttiva del Fast fashion.
Mutamento sociale
Con il tempo si è avuta una contro versione delle abitudini di consumo sociali relative alla moda. Non si trattava più di chi poteva permettersi di acquistare un capo nuovo ogni settimana o di seguire le nuove tendenze senza tener conto della stagionalità.
Ad un certo punto la moda veloce ha iniziato ad avere moltissimi haters: sono nate le prime piattaforme online e applicazioni attraverso le quali si poteva acquistare vintage e second-hand o ancora effettuare scambi di capi di abbigliamento usati ma al tempo stesso ancora utili.
La prima scossa al Fast fashion
Il primo vero scossone il Fast fashion lo ho sentito arrivare nel 2018 quando il famoso marchio low cost americano Forever21 ha dichiarato bancarotta. Successivamente nel 2020 l’arrivo del coronavirus ha dato una vera e propria mazzata ai punti vendita fisici della grande distribuzione organizzata del settore moda.
Centri commerciali chiusi, all’interno dei quali negozi enormi come Zara, H&M o ancora Primark hanno dovuto abbassare le saracinesche e mandare a casa in cassa integrazione i propri dipendenti.
Il consumatore medio ha iniziato a pensare principalmente alla propria salute. Si è iniziato a valutare molto meglio le spese relative all’abbigliamento. Dal 2020 in poi si fanno scelte più consapevoli, e si spendono la metà dei soldi per acquistare abiti.
Il filone del vintage
Con la pandemia si è poi sviluppato il filone del vintage e del second-hand che vanno contro la globalizzazione del capo d’abbigliamento e puntano all’originalità, alla ricerca di uno stile personale che possa contraddistinguere gli uni dagli altri.
In quest’ottica spendere 20 € per una camicia realizzata in un cotone con una stampa particolare, che magari non esiste più, che ha resistito anni e anni all’interno dell’armadio della nonna, è la scelta più glamour ed ecosostenibile che si possa fare.
Forse l’unica catena che veramente sta conoscendo una spesa inferiore rispetto alle altre e Primark. Questo perché a prezzi veramente bassissimi e non cerca di vendere prodotti di scarsa qualità spacciandoli per prodotti di alta qualità. Primark dice al consumatore medio che ciò che vende e cheap come lo si vede: durerà anche poco, ma è costato poco, perciò perché non comprarlo?